14 aprile 2017

La lingua preletteraria latina, la forza del suono antico

Iscrizione latina
La nostra lingua, l'italiano, ha origini antiche ed è figlia di quel latino di cui ancora oggi ne usiamo spesso, inconsciamente, i termini: Curriculum, corpus, ante litteram, ad honorem, habitat; sono solo alcuni dei frammenti che la modernità, distratta, ha risparmiato. Piccole entità di un codice che nel '400 segnava il confine tra lingua dotta e volgare, tra sacro e profano e già da allora si avvertiva, nascosta, la forza onomatopeica di questa lingua. Mai come oggi, l'importanza della lingua latina definita dai più anacronistica, diviene fondamentale. Non soltanto a scopo di erudizione ma in modo ancora maggiore, per le radici del nostro essere e pensare, in un continente come quello Europeo che più di ogni altro luogo ha smarrito la propria identità.

Le prime espressioni latine hanno avuto origine dalla vita nei campi dalla fatica dell' agricoltura e dall allevamento, parole come lieto derivano da laetus - laetamen cioè che produce fertilità e quindi gioia o letizia, lo stesso termine "Egregio" usato nel nostro italiano di alto registro deriva da egregius-egrex ovvero colui che è scelto tra il gregge. Quindi allevamento, vita dei campi, agricoltura quel modo di vivere agreste che autori come Virgilio nelle Georgiche, Catone e Varrone rispettivamente nel De agri coltura e nel De re rustica hanno portato alla luce come modello di crescita della vita morale, ma non solo; la cultura latina arcaica era fondata sopra ogni cosa su quella che era la vita religiosa, i riti, i sacrifici, la superstizione erano il collante, un tutt'uno, con la quotidianità e la società romana, quest'ultima ancora orfana di una tradizione scritta si affidava completamente all'oralità e conseguentemente alla memoria.

Nascono cosi i Carmina, in un periodo nel quale poesia e prosa non hanno distinzione alcuna tra loro, ma al contrario si mescolano, dando alla luce quella che si potrebbe quasi definire una prosa ritmata dai canti di chiaro stampo religioso, e proprio all'interno di quest'ultimi si annideranno caratteristiche foniche come allitterazioni, omoteleuti, anafore; semi di una lingua che raccoglierà i suoi frutti da Nevio a Plauto sino agli autori di età Augustea come Virgilio, Ovidio e Orazio che faranno perno come vedremo sulla potenza fonica di questa lingua.

Graffiti latini

I Carmina dunque, affiancavano ogni piega della vità romana, tra i più antichi si ricorda il carmina Saliare dove dodici sacerdoti detti appunto i Salii cantando questi carmina portavano uno per uno i dodici Ancilia (cosi erano chiamati i dodici scudi), processione che avveniva nel periodo di marzo poichè era con molta probabilità un rito legato al culto di marte ed alla protezione della città di Roma. Secondo la leggenda infatti Marte fece scendere dal cielo un suo scudo affermando che se questo fosse rimasto dentro le mura della città, Roma sarebbe stata inespugnabile, vennero quindi forgiati altri undici scudi affinché si potesse confondere quello vero ed evitarne il furto.

Eppure per comprendere interamente la forza della lingua antica preletteraria, anche nelle sfumature più dolci, si deve abbandonare la sfera religiosa (che era comunque parte integrante soprattutto dei ceti più elevati) ed entrare in quella intima ed umile della casa e della famiglia, da cui derivano i carmina popularia, canti popolari dunque dediti ad ogni aspetto della vita familiare. Impressionante quanto sbalorditivo é il ritrovamento tramite un annotazione antica a margine di un testo, probabilmente di epoca ellenistica, di questa ninna nanna:

Lalla, lalla: aut dormi aut lacte,
nisi lactes, dormi, dormi.
Blande somne, somne velli,
claude Marco nostro ocellos,
artus occupa tenellos;
sunt ocelli somni pleni:
somne veni.
Lalla, lalla: aut dormi aut lacte:
nisi lactes, dormi, dormi.
Alta in caelo splendet luna,
errant noctis umbrae inanes,
per silentia latrant canes,
micant stellae mille et una,
splendet luna.
Lalla, lalla: aut dormi aut lacte:
nisi lactes, dormi, dormi.
Longe rubent dulcia poma,
cadunt lilia, surgunt rosae,
stellae in caelo sunt radiosae
stertit... ridet... subter coma
sentit poma.

Come spesso accade è nella semplicità, a volte elementare, che si rispecchia la bellezza più autentica e questo canto lo testimonia in maniera limpida, ma non solo, si faccia caso come in un epoca come quella preletteraria dove la scrittura ancora non era manifesta, molta attenzione era concentrata sugli aspetti fonici e retorici, come le rime, ma soprattutto fondamentale era l'aspetto del ritmo, basilare nei carmina. Tutto il canto sembra permeato da movimenti ondeggianti quasi come un cullarsi nelle parole. La cadenza e le pause rispecchiano perfettamente la lentezza del cantato che si voleva emanare per accentuare quel senso di tranquillità tipico nel mondo dell'infanzia.

È sufficiente poi spostarsi nel tempo e notare come anche a livelli più alti ad esempio quelli dell' Eneide virgiliana, quando ormai la lingua latina aveva trovato la sua maturità espressiva, le caratteristiche della letteratura arcaica si sono tramandate quasi geneticamente. Nel secondo libro dell'Eneide, Enea è inviato da Didone, regina di Cartagine, a raccontare i fatti avvenuti durante la guerra di Troia per lui tremendi nel loro ricordo, e in un preciso passaggio il figlio di Anchise rievoca la sistemazione delle truppe Achee sulla spiaggia, ormai abbandonata.

hic Dolopum manus, hic saeuus tendebat Achilles,
Classibus hic locus, hic acie certare solebant.

Qui la schiera dei Dolopi, qui s'accampava il crudele Achille;
qui il posto per le flotte, qui solevan combattere in schiera.

Ora leggendo nella maniera classica le due c di acie e certare vanno lette come due gutturali cioè come se avessimo achie e chertare. Virgilio usa questa sorta di allitterazione quasi come se le gutturali servissero a dare il senso di uno stridio di spade, e non a caso il verso si traduce "qui erano soliti combattere schierati". Ed ancora pochi versi dopo mentre Enea continua a narrare di come i greci riuscirono ad ingannare i Troiani con lo stratagemma del cavallo e di come Laooconte personaggio ormai scolpito nella letteratura, e non solo, cercò di sventare la trappola, troviamo:

Contorsit, stetit illa tremens, uteroque recusso
insounuere caue gemitumque dedere cauerne

Ella ristette tremando, e percosso il ventre,
risuonaron le cave caverne e diedero un gemito.

Il latino a differenza dell'italiano non è una lingua posizionale bensi segue le regole dei casi, e l'aggetivo caue concorda in questo caso con il sostantivo cauerne. Caue cauerne dunque cioè l'interno, il ventre vuoto del cavallo che sta per essere colpito dalla lancia scagliata da Laooconte e che sta per contorcersi. Lette insieme le due parole riproducono esattamente il verso fonico di un eco che si propaga, prodotto in un ambiente cavo e vuoto, é questo il senso che vuole dare Virgilio maestro nella sensibilità fonica delle parole e delle sensazioni che queste suscitano, è di estrema rilevanza tra l'altro aggiungere che la lettera u nel latino arcaico era associata all'oscurità ed alla paura in maniera particolare, come in questo caso, se era ripetuta.

Dunque allitterazioni, ma soprattutto ripetizione delle lettere e delle parole che provocano sensazioni e non solo in Virgilio ma in precedenza con autori che hanno formato la prima letteratura latina. Autori come Ennio colui che fu definito l'alter homerus e primo padre della poesia latina, nei suoi Annales, uno dei primi poemi epiche riprendevano la struttura degli Annales Pontificum (cioè il rielencare anno per anno gli eventi e i personaggi di grande rilevanza per l'urbe), si ritrova questo verso:

O tite tute Tati tibi tanta turanne tulisti

O Tito Tazio, tiranno, tu stesso ti attirasti atrocità tanto tremende!

Ora è la lettera T ad essere ripetuta in maniera quasi ossessiva ma senza l'intento estetico di voler creare una sensazione, in questo caso Ennio riprende un modo di fare tipico della lingua arcaica preletteraria nonchè la ripetizione per un suo virtuosismo. È dunque la ripetizione la chiave di comprensione di questo modo di scrivere ripreso dalle epoche preletterarie, l'uso grottesco a volte nevrotico e compulsivo delle figure di ripetizione come quelle di cui abbiamo parlato in precedenza hanno un significato profondo, misterioso, quanto letterariamente romantico. Per le popolazioni latine antiche il ripetere una parola un verso o una lettera (anche tramite le preghiere orali come i Carmina) aveva la funzione di produrre realtà o meglio si cercava di riprodurre la realtà attraverso le parole e ripetendole si immaginava di poterle rendere vere, ad esempio ripetendo il nome del dio si credeva potesse comparire davanti a loro o pregando gli dei del raccolto si credeva questo potesse divenire subito più fertile.

Eppure non è, e non è stato anche questo l'obiettivo delle letterature di tutti i tempi e della letteratura in generale? Il produrre sensazioni o emozioni reali tramite le parole? Dai romanzi alla saggistica non esiste testo che sia esentato da questa "legge" cosi come le note di uno spartito ripetute in maniera simmetrica o meno provocano emozioni differenti tramite l'udito, allo stesso modo la lettura delle parole provoca il medesimo effetto.

Non a caso musica magia e ripetizione sono tenute insieme da un filo labile ma robusto, così come il musicologo Jules Coimbarieu evidenzia in un suo scritto dal titolo La musica e la magia. Per Coimbarieu la musicalità delle parole creata tramite le ripetizioni foniche o meno emana quelle atmosfere quasi sfumanti nell'utopia che darà poi vita alla più complessa e articolata forma musicale.

Come e cosa riproporre di questa lingua antica quindi ai giorni nostri?

In uno dei suoi saggi il padre della semiologia, Roland Barthes volle accostare ad ogni figura retorica della letteratura un gesto umano, e scelse accuratamente per l'epifrasi, nonché quella figura che riprende un senso interrotto brevemente (dolce e chiara è la notte, e senza vento) il gesto del voltarsi indietro dopo l'aver salutato qualcuno. Ecco, il latino oggi dovrebbe essere guardato, osservato sentito come un epifrasi interiore, voltarsi indietro richiamati da un suono, meditare per capire veramente il nucleo del nostro modo di vivere e di pensare, senza il quale non resterebbe che un cammino disorientato verso il silenzio.


2 commenti:

Anonimo ha detto...

E' riuscito a dare anima ad un argomento tra i più difficili.

Anonimo ha detto...

La ringrazio, troppo gentile.